Silenziosi re del vuoto

[Photo credits: NASA]

Tutto era cominciato nel gennaio del 1986, quando la prima foto del pianeta Urano fu resa pubblica. Allora lei era solo una bambina, ma l’aspetto alieno di quella palla azzurra l’aveva segnata nel profondo.
Inconsciamente, da allora aveva cominciato a guardare il cielo in modo diverso, a fissare la Luna e a immaginarla nelle sue tre dimensioni, e non solo come un disco pallido nella notte.
Qualche anno dopo, la NASA aveva pubblicato il primo ritratto di Nettuno, quasi assurdo da quanto era bello, di quel blu cobalto profondo, immerso nel nero del vuoto, e con quei sottili anelli che sembravano fili d’argento.

Phoebe guardava sempre verso il cielo, conosceva per nome tutto ciò che vedeva, e sapeva dov’era ciò che non poteva vedere. Osservava l’immenso ecosistema del cosmo e al confronto dell’immensità dello spazio attorno a lei, preoccupazioni come l’essere in ritardo con il pagamento dell’affitto o il dover lavorare per pochi euro all’ora le sembravano ridicoli. Phoebe sapeva che la sua vita aveva valore fintanto che veniva usata per godere dell’incredibile e del disumano, finchè la conoscenza continuava a infiammarle la mente. Non importava che fosse l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo, il vero valore per lei non risiedeva nei possedimenti materiali ma nel privilegio di poter essere testimone di un’era di incredibili scoperte.

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Nella scienza, Phoebe vedeva la realizzazione della grandezza umana, il suo apice. Era qualcosa di genuinamente esaltante, l’esempio massimo di civiltà. La scienza univa le Nazioni, che senza sostenersi a vicenda non sarebbero state in grado di fronteggiare la portata immensa dei suoi campioni. Poteva passare ore a leggere delle Lune e delle sonde incredibili create dall’uomo, i nostri occhi verso le stelle.

Per un periodo aveva vissuto da sola in un casolare della campagna Toscana. Aveva un piccolo balcone che si affacciava su un cortile dominato da una quercia enorme. Durante tutta l’estate, fino all’inizio dell’autunno, le piaceva portare fuori una poltroncina e mettersi comoda a guardare le stelle, approfittando del fatto che non ci fosse un lampione nel giro di qualche chilometro. Quello era un posto in cui il buio e il silenzio si combinavano in armonia, generando la pace assoluta. E in quella condizione poteva finalmente vedere tutto ciò che c’era in ogni porzione di cielo.

Una notte venne una donna. Era bella e senza età, e sostava al centro di un salone allagato indossando un abito da sera di lino blu. Phoebe non la conosceva, ma non aveva dubbi sul fatto che quella fosse la sua guida, perché in ogni sogno c’è una guida. Quando perdiamo la guida brancoliamo alla ricerca della via d’uscita, che è inevitabilmente il risveglio. Allora le si avvicinò, e attorno a loro gli stucchi e gli specchi evocavano la decadenza illuministica. I capelli della donna erano castani e si scioglievano sulle spalle in boccoli viscidi, come di una creatura che provenisse dall’acqua.
“Nell’altra stanza c’è Titano” disse quella, sollevando il dito e indicando una porta.

Phoebe camminò fino alla porta e l’aprì, e le si parò davanti una sfera immensa che riempiva tutto lo spazio disponibile, brillando di una fioca luce azzurrognola. Non era Titano, sembrava piuttosto il suo fantasma. Giaceva silenzioso in quella stanza vuota, grande come una città. L’atmosfera sfiorava appena il soffitto e le pareti, dove l’intonaco si stava scrostando sotto il peso del tempo.
Phoebe lanciò uno sguardo oltre la luna, scorgendo Rea e Dione in lontananza, e ancora più lontano Giove e il Sole abbagliante.
“La Terra è così insignificante che nemmeno si vede”
“Ma è bellissima, anche se non si vede” commentò la donna in blu, di nuovo al suo fianco.
“È il pianeta più bello di tutti, ma qui almeno non c’è crudeltà”
Phoebe si voltò. Dietro l’intricata capigliatura della sua guida c’era Saturno, così immenso che faticava a vederne la fine.

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“A volte vorrei essere Cassini; soffermarmi presso gli anelli di Saturno, tranquilla e isolata, dove la crudeltà non è conosciuta e spero non lo sia mai.”
“Saturno non conosce la crudeltà perchè non conosce la vita” rispose la donna in blu.
“Quindi non può esserci vita senza il caos?”
“Nella misura in cui l’ordine assoluto corrisponde al nulla assoluto.”
La guida si voltò e alzò una mano per ripararsi gli occhi dalla luce abbagliante.
“Vedi? Da qui puoi vedere il Sole”
“Certo, lo so.”
“Nessuno sa che siamo qui.”
“A parte Cassini.”
“Ascolta. Abbiamo tutta l’eternità per restare a sentire il silenzio.”
Come due viaggiatori sulla cima di una montagna, da lì potevano vedere il Sistema Solare muoversi secondo i suoi moti armonici, osservarne l’andamento meccanico nel vuoto cosmico. Phoebe guardò il Sole lontanissimo senza esserne accecata. Vedeva Giove, Marte e la Terra, lontana e piccolissima come un granello di polvere.
“Questo non è posto per te”.
La guida l’abbracciò, chiuse gli occhi appoggiando la testa sulla sua spalla.
“Ci troviamo a profondità batiali, qui moriresti, tu che sei creatura del sopralitorale.”
“In tutto l’infinito, la mia casa è solo quel pallido puntino blu… è così piccola che sembra non esistere nemmeno.”
“Eppure non hai bisogno di altro.”
“Voglio credere che la mia casa arrivi fin dove riesco a vedere e fin dove riesco a sentire. I confini della mia casa li stanno tracciando i Viaggiatori.” Phoebe si guardò attorno “Chissà dove sono, adesso.”
La donna in blu indicò un punto nel vuoto “Oltre l’arco, di là.”
Phoebe sorrise “Oltre la fine del Sole. È bello tenere compagnia a questi grandi signori, i silenziosi re del vuoto e della solitudine, e ai loro satelliti devoti.”
La guida, con un gesto delicato, le prese il viso tra le mani “Chiunque soccombe all’amore per la meraviglia.”
“Perché distruggiamo, allora?”
La guida spostò lo sguardo verso Giove “Perché è il destino di tutta la materia.”

Improvvisamente Phoebe si ricordò dell’acqua e la prese un senso di vertigine. Cadde e sprofondò nell’oceano.
Si svegliò sotto il Sole accecante, quello giallo e vicino che le era familiare. Le ci volle qualche istante per capire che si era svegliata. Aveva la trapunta arrotolata attorno al corpo, sprofondata nella poltrona fuori sul balcone. Si liberò dalle coperte e l’aria pungente del mattino le fece venire la pelle d’oca attraverso il maglioncino. Era domenica.

Per tutta la giornata non fece che ripensare alla donna e ai pianeti che aveva visitato, e provò nostalgia per quella tranquillità. Nemmeno la pace della notte di campagna reggeva il confronto contro la serenità del vuoto, ma era grata di averla potuta sperimentare in sogno. Le piaceva il canto degli uccelli e le piaceva il vento fresco, il frusciare delle foglie, l’odore del legno umido e il colore delle viti in autunno. Era vero, per l’uomo non può esistere pianeta più amabile della Terra; il fascino per tutto ciò che orbitava al di fuori era come l’attrazione ancestrale per la morte, che può esistere solo se vissuta da una certa distanza.
“Eppure, a volte vorrei essere Cassini, sospesa nel nero profondo dello spazio dove la crudeltà non ha dimora.”

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Sometimes I think of myself as a discordian relativist natural pantheist, sometimes I don't. Sometimes I'm an old girl in a malfunctioning shell, sometimes I'm an ill-educated philosopher, sometimes I'm a scholar in early modern history. Sometimes I'm a graphic designer, sometimes I'm a writer, sometimes I'm a company administrator, sometimes I'm a curious animal, sometimes I'm a misanthropist, sometimes I'm a good friend. One thing is sure: I'm not the same thing all the time.